di Pier Aldo Rovatti

Molto abbiamo detto e scritto sull’identità problematica di Trieste. Luci e ombre (ma, in definitiva, più luci che ombre) e ogni volta è il mare il personaggio principale delle nostre narrazioni. Il fatto stesso che chi arriva da fuori trova a Trieste un’esperienza di vita del tutto singolare, al punto che quasi sempre vi resta, non è scollegato da un vincolo tra mare e città molto stretto e altrove insistente. È come se la città, gli occhi dei cittadini non guardassero il mare, ma fosse il mare con uno sguardo paradossale a vedere le case e le strade, gli individui che le percorrono – veloci ma senza furia – e vi abitano. Il cartello dovrebbe proprio essere: “Trieste, la città del mare”. A indicare un fenomeno, comprensibile e pur sempre strano, che sovrasta o eccede gli altri aspetti di una città con tanti problemi e anche arretratezze, insomma non semplice da amministrare.

Se ne è parlato anche qualche giorno fa in un meeting alla Camera di commercio di cui questo giornale ha già raccolto l’eco. Trieste è una città che ha come priorità quella di riguadagnare il proprio passato oppure è una città che deve innanzi tutto mollare gli ormeggi e immaginarsi un futuro sostenibile? Quelli che sono venuti a vivere a Trieste, e che ora non se ne andrebbero per niente al mondo ancorché spaesati da un’evidente insularità, si sono imbattuti in un complesso insieme di superiorità e di inferiorità: da una parte la fierezza di esserne cittadini, dall’altra parte la poco gratificante consapevolezza di una condizione provinciale. Entrambe queste caratteristiche psicologiche (termine però alquanto stretto) possono agire da freno: una città che deve restare così com’è senza toccare nulla, una città che respinge il cambiamento perché non ha né il vigore né la fiducia per costruirlo.

La bella sinergia tra mare e luoghi non basta. Occorre che i “soggetti” si smarchino da questo duplice complesso che rischia di immobilizzare la città, facendola diventare una successione di weekend festosi, attrazioni grandi (e perfino grandiose) o piccole, bianchi sciami di bancarelle. Non parlo di élites, protagonisti di eccellenza, dirigenti di prestigio; piuttosto di una soggettività più silenziosa, diffusa, porosa. Se il mare dà vento e tono alla città, da chi è fatta concretamente questa nostra città?

Per dare un contenuto effettivo all’identità di Trieste, occorrerebbe liberarsi di molti stereotipi (la retorica di Trieste ne è piena) che ormai non servono più, e anche prendere distanza dall’idea che solo coloro che occupano posizioni di potere forniscono il polso identitario della città. Dovremmo piuttosto cercare la soggettività cui sto alludendo nelle potenzialità e nelle attitudini del corpo collettivo dei cittadini. Ho l’impressione che, se partissimo dalla valorizzazione delle potenzialità diffuse, questo potrebbe rivelarsi il filo di Arianna che ci porterebbe verso un possibile carattere identitario. Potenzialità, cioè qualcosa che non è ancora realizzato ma che può svilupparsi in un futuro prossimo. Anzi, che può essere addirittura “inventato”.

Utopia? Riflettiamo, invece, a quanto potrebbe rivelarsi disastroso e artificiale, anche in termini di identità, un futuro che non appoggi su gambe – pur fragili – di questo genere. Faccio solo un esempio sintomatico: all’inizio del 2015 l’Istat ci ha fatto sapere che la nostra Regione, dati alla mano, è quella che possiede, in un quadro nazionale, i lettori più forti in termini di libri letti in un anno e di libri conservati nelle proprie abitazioni. Ecco cosa si può intendere per potenzialità presente nei soggetti di base. Prendendola sul serio, non sarebbe difficile disegnare uno spicchio di futuro che dia sostanza a questa identità di “lettori” con una serie di iniziative a largo raggio, in cui forse potrebbero comporsi un grande centro bibliotecario e un’attività capillare di biblioteche diffuse (che, tra l’altro, è già all’opera).

Ma come? Trieste non era una città con poche librerie e con nessuna casa editrice di prestigio? Certo, ma è anche la città con tantissimi lettori e tantissimi libri nelle case. Se riuscissimo a uscire da un simile equivoco, verrebbe – in parte almeno – cancellato lo stigma opprimente di provincialismo e avremmo in mano un piccolo atout per ridisegnare in futuro un’identità non già scontata.

[pubblicato su “Il Piccolo”, 30 ottobre 2015]