di Pier Aldo Rovatti

L’augurio è che si ponga fine a una scena che ormai sembra fissa, dove stiamo vivendo un’eterna campagna elettorale. Il “dire” prevale necessariamente sul “fare” dettandone tempi, modi e dimensioni. È ovviamente la scena politica nella quale ci sentiamo imbottigliati e dalla quale non sappiamo bene come uscire.

Speravamo che il “suicidio” di Salvini e l’imprevista nascita del governo Conte-bis aprisse la strada per liberarci da questa trappola, grazie alla presenza di una compagine di “sinistra” a fianco di un movimento abbastanza instabile (i Cinquestelle), e ancora contiamo che si aprano dei varchi per schiodare il fare dal dire. Ma è un augurio che impallidisce a fronte degli eventi che stanno caratterizzando l’inizio del nuovo governo. Nessuna svolta per adesso si vede: circostanze e comprensibili difficoltà nel gestire l’attuale cosa pubblica non bastano a legittimare la continuità di una tendenza che si era già rivelata pesante e dannosa e che non cessa di manifestarsi come dominante.

Certo, qualcuno lancia segnali di allarme e manifesta l’esigenza di uscire dal tunnel elettoralistico, ma complessivamente è lì dentro che i nostri governanti sembrano restare ancora bloccati. Certo, dopo l’Umbria, altre regioni andranno alle urne, e già a gennaio l’Emilia è un test importante se non decisivo, e ciò veicola impegni e relative attenzioni comunicative. Qualcuno è arrivato perfino a promuovere l’idea che lo scopo del governo debba consistere essenzialmente nell’arrivare fino alla scadenza del mandato del Presidente della Repubblica, così da poter decidere l’elezione del suo successore.

Il rischio che il clima pubblico permanga quello di una campagna elettorale senza fine ha conseguenze evidenti: difficile vederne la conclamata discontinuità con il recente passato e credere che davvero il primato del dire abbia ceduto il passo a una normale politica del fare. Perché qualcosa di simile effettivamente si produca, ci vorrebbe una vera rivoluzione nella cultura politica. Se anche fosse alle porte o solo in gestazione un fenomeno del genere, dovremmo chiederci a quale “vittoria” potrebbe condurci, posto che la logica politica debba essere in ogni caso quella del vincere o del perdere.

Non c’era bisogno che un comico di provata intelligenza proponesse a tutti coloro che vorrebbero continuare a pensare bene, un paradosso del tipo: se comunque si perde solo a spingere un poco il pedale del fare (un esempio, la cosiddetta “plastic tax”), perdere per perdere, allora spingiamolo fino in fondo questo pedale finché ne abbiamo la possibilità. È un paradosso che contiene una verità. In passato, i governi di sinistra hanno esitato ogni volta senza evitare di farsi autogol, ma oggi le condizioni, in meglio e in peggio, sono comunque diverse e chiedono forse al politico intelligente di lasciare da parte le dimensioni della propaganda o della risposta alla propaganda dell’avversario.

Si ha l’impressione di una già eccessiva e perdipiù ancora crescente esposizione mediatica: troppi discorsi affollati in tempi stretti, facilmente declinanti nella lite, poco fedeli a sé stessi, scarsamente strutturati nei contenuti. Il vecchio tarlo berlusconiano sembra riuscito a intaccare ogni legno della casa politica: la squadra di consulenti di cui ogni leader dispone è stata in grado di raffinare la grossolanità di quegli inizi, non però di fornire alle tecniche del dire una fruibilità davvero democratica, al punto che possiamo ragionevolmente chiederci se il “parlare alla pancia” non ne sia un desolante ma funzionale punto di arrivo.

Si tratterebbe di depurare i gesti del fare dalla straripante retorica dei discorsi, costituita da ripetuti proclami e dalle tonalità di un dire la cui concretezza (rispetto ai discorsi stile prima repubblica) attraversa tutta la gamma di una volgarità mascherata dal bisogno di parlare direttamente al cittadino. Ormai abbiamo sondato in lungo e in largo la grammatica e la sintassi di questo modo della comunicazione politica che è diventata la nostra gabbia discorsiva. Insisterei piuttosto sulle possibili qualità, non facili da individuare, di una “narrazione” alternativa.

Sì, perché l’augurabile rovesciamento tra dire e fare non significa che il dire venga escluso, cosa impossibile. Piuttosto comporta la ricerca di un linguaggio politico che qualcuno chiamerebbe forse “riparatorio” ma che in ogni caso dovrebbe essere una lineare introduzione al gesto politico, senza infingimenti o calcoli di tornaconto personale. Una narrazione che parli davvero “per il bene del cittadino”, al di là di ogni interesse di bottega, appare paradossalmente come la più difficile da immaginare e da usare.

Eppure, o troviamo la via di una simile chiarificazione o ci condanniamo a essere definitivamente travolti dalla retorica mediatica che già ci sommerge. È del tutto opportuno criticare l’attuale politica per l’estrema povertà di una prospettiva comune che guardi più al domani che all’immediato oggi, ma sarebbe molto miope credere che questa comunità di intenti, che ogni cittadino consapevole dovrebbe augurarsi (e impegnarsi a promuovere, anziché limitarsi a lamentazioni pur giustificate), possa cominciare a prendere forma senza un’intonazione delle parole, cioè senza un accordo anche minimo sul linguaggio da mettere in campo, sciacquato da ogni velleità promozionale.

[pubblicato su “Il Piccolo”, 8 novembre 2019]