di Pier Aldo Rovatti

Absit iniuria verbis è uno dei detti latini che sono arrivati fino a noi senza perdere la loro efficacia. Oggi, togliere alle parole il carattere ingiurioso sembra diventato un compito ancora più difficile: il cosiddetto linguaggio da trivio ha preso possesso della comunicazione pubblica, dai social alla televisione fino alla politica, come se il termine offensivo, spesso impastato di oscenità, avesse ormai una generale legittimazione.

Allora, chi ha proposto che è ormai tempo di “prendersi cura delle parole”, ha lanciato un messaggio importante che non può restare inascoltato. Pur nel degrado culturale che ci sentiamo addosso, occorre svegliarsi e fare qualcosa prima che l’appiattimento ci seppellisca nell’abitudine e nella noncuranza.

Accorgersi, innanzi tutto, che anche chi si ritiene completamente indenne rischia ogni giorno di scivolare sulla buccia di banana del linguaggio ingiurioso. Non basta decretarne l’assenza (quell’absit, appunto), sollevandoci – per così dire – sulla punta dei piedi: perché il mònito non resti un flatus vocis, cioè un lieve soffio moralistico che si disperde nell’aere, occorrerebbe un’attenzione nei confronti del parlare (e dello scrivere) quotidiano alla quale non siamo avvezzi e nemmeno interessati.

Se esercitassimo questa sensibilità alle parole, alcuni particolari all’apparenza trascurabili diventerebbero sintomi non irrilevanti, anelli pur piccoli di una catena di maleducazione linguistica. Per esempio, il modo con cui usiamo il pronome “io”, anche quando dialoghiamo tranquillamente in casa con i famigliari, in uno scenario non impegnativo, disteso. Quel pronome – facciamoci caso – viene collocato sempre al primo posto, in una posizione di verità, di assertività, di potere. Perfino chi parla mostrando un esplicito rispetto per l’interlocutore, esordisce spesso con questo “io” alquanto ingombrante.

Eppure ci avevano insegnato a non esibirlo a inizio frase, cercando di convincerci che era più ospitale verso l’altro collocare quell’“io” in seconda battuta per lasciare la precedenza al “tu” o ai nomi che di volta in volta lo rappresentano. Ci avevano infatti avvisato che si doveva piuttosto dire (e scrivere) “tu e io”, “Caio, Sempronio e io”. Ma l’avvertimento è caduto nel dimenticatoio di un eccessivo bon tone dell’inutile retorica, e così quasi nessuno rinuncia a iniziare la frase dichiarando esplicitamente che è lui che parla.

Credo invece che per prendersi cura delle nostre periclitanti parole (nel senso che rischiano di ruzzolare a ogni passo), sia il caso di mettere molta attenzione alla maniera con cui ci siamo ormai abituati a “prendere” la parola ogni volta che iniziamo a parlare. Con quale investimento di potere su noi stessi? Con quale implicita richiesta di assenso? Con quale effettiva attenzione per il destinatario delle nostre parole? Se ci riflettiamo, qui è subito in gioco il senso di ogni scambio: se vogliamo che sia dialogico (e dunque ospitale) oppure no, se restiamo in ascolto lasciando spazio per una risposta oppure se ogni discorso, anche il più modesto, deve pretendere di chiudersi in se stesso senza interesse alle parole dell’interlocutore.

Il quale interlocutore cessa di essere tale (qualcuno che “parla insieme a”), e viene così messo di fronte a un bivio: o se ne sta zitto facendo un passo indietro, oppure trova a sua volta in se stesso quella sorta di prepotenza che gli fa dire, a propria volta, “io”. Esiste forse una terza scelta tra l’inchinarsi e accettare in silenzio, in modo gregario o piegando semplicemente la testa, e una reazione mimetica grazie alla quale si possa riuscire a contrapporre il proprio “io” a quello che ci viene rivolto?

L’unica risposta a quella che è ormai diventata quasi un’ossessione per poter sventolare una bandierina con sopra scritto “io”, sarebbe una sorta di radicale soppressione dell’uso esasperante di questo pronome. La buona psicoanalisi ci aiuta a comprendere l’esigenza di tale svolta, tuttavia la pratica linguistica corrente fa orecchie da mercante a qualunque segnale di arresto e corre spedita per la sua strada. “Io” che si parlano senza ascoltarsi.

E ci sarebbero anche gli ammaestramenti di quelle lingue, moderne e antiche, che per vari motivi rifuggono da un incessante “io”, “io”, “io”, praticando una sorta di silenziamento che non è sempre un’esigenza di comunicazione velocizzata per opportunità tecnologica. Abbiamo cominciato con il latino, possiamo concludere osservando che lì (come anche nel greco antico) il pronome egoè quasi fuori scena: Cartesio, sulla scia, dirà cogito ergo sum, non ego cogito ergo sum.

Già, dovremmo riuscire nell’impossibile impresa di mettere fuori scena, cioè far diventare “osceno”, il nostro amato pronome a partire dal quale vengono poi autorizzate tutte le ingiurie che stanno popolando il nostro modo di comunicare.

[Pubblicato su “Il Piccolo”, il 17 gennaio 2020]