di Pier Aldo Rovatti

Paolo Grassino, Serie Zero, 2018

Intervenendo in una recente intervista sulla campagna di odio e di insulti contro “Repubblica”, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha detto che sarebbe necessaria un’“igiene delle parole”. L’espressione può sembrare inappropriata, un indebito spostamento metaforico, come se ci trovassimo in una situazione di emergenza di fronte all’avanzata di un contagio che potrebbe investire ciascuno di noi, insomma come se le parole che adoperiamo fossero ormai a rischio di infettarsi sempre di più nella comunicazione pubblica di oggi. Che le nostre parole, comprese quelle delle relazioni quotidiane, stiano “ammalandosi” è certo una metafora, però rende bene l’idea dell’imbarbarimento del linguaggio. Il virus ha a che fare senza dubbio con una carica di odio che sta diffondendosi a grande velocità. Non nascondiamoci che si tratta di un virus molto resistente e difficilmente isolabile. Ci illudiamo di saperne abbastanza per poterci dichiarare immuni, ma poi ci accorgiamo che facciamo fatica a controllarlo e che spesso ce lo troviamo dentro casa e dentro noi stessi.

Per mettere in piedi un’offensiva “igienica” che incida davvero su questa malattia delle parole dovremmo capire come ci si ammala, come nasce la carica di odio che oggi passa nella lingua d’uso: un lavoro storico-genealogico, che possiamo attraversare o riattraversare, spingendoci perfino alle origini dell’umanità cosiddetta “sapiens”. Temo che una simile regressione, certo utile se eseguita con spirito critico, ci porterebbe troppo lontano da ciò che adesso cerchiamo con urgenza. Abbiamo infatti bisogno di elementi concreti che ci aiutino a isolare il virus.

Intanto, qual è il suo vero nome? Odio potrebbe essere una denominazione troppo vasta e generica. Il nome più opportuno è forse quello di “indifferenza” che ci viene offerto da ciò in cui consiste il prodotto dell’odio verbale sulle nostre esistenze. È un’osservazione empirica, banale ma decisiva: l’odio che sostiene gli insulti e le minacce si deposita, dopo una breve latenza, in un atteggiamento di disinteresse e indifferenza collettiva.

Gli odiatori mescolano tutto in un disinteresse completo, chi riceve l’odio verbale rischia a propria volta di svuotare di senso le proprie parole. Più che la violenza insita nell’insulto, ciò che alla fine passa è la tossicità di un linguaggio che tende via via a svuotarsi, che si impoverisce sempre di più della sua capacità di legare tra loro i soggetti e di rilanciare il significato delle loro parole in forma di impegno e di promessa.

Accade così che l’odio verbale tenda a diventare completamente gratuito sia per chi lo adopera come un’arma sia per tutti coloro che dovrebbero difendersene, ma vengono – per dir così – disanimati, intossicati dal virus dell’indifferenza. Le parole cessano di essere portatrici di pensiero, si liberano dal peso dell’essere pensanti, si adeguano alla pratica del non-dire, diventano tendenzialmente vuote. Ecco in cosa consiste il loro essere portatrici di infezione. E qui si colloca l’esigenza di un’igiene verbale.

Non è un piccolo disturbo, non solo perché il virus dell’indifferenza risulta ormai epidemico ma soprattutto perché non ne conosciamo di preciso gli effetti e quindi procediamo a tentoni nell’individuazione dei rimedi. Si direbbe che non servano quarantene dato che il disturbo stesso si presenta nella forma di una quarantena generalizzata. Mi riferisco all’isolamento che si sta producendo anche nel linguaggio (come nell’insieme delle nostre pratiche di vita sempre più isolazionistiche), nel momento in cui le parole vuote possono scambiarsi tra loro in maniera indifferente.

Non abbiamo ancora messo a punto alcun antidoto né sappiamo quanto tempo ci vorrà (e se ci riusciremo). Anche se talora ci sentiamo di tentare il salto da una parola ormai svuotata dall’indifferenza a una parola che potrebbe contenere un rilancio di pensiero, potremmo trovarci subito di fronte a un insuccesso perché abbiamo sbagliato il tempo e la misura del messaggio. La questione è complicata: chi parla deve forare il proprio margine di indifferenza e poi riuscire a rompere la barriera di indifferenza che gli frappone l’ascoltatore.

La parola ha bisogno dell’ascolto. La sua “igiene” non può limitarsi a funzionare come un anti-virus che protegge l’io del parlante, sempre che ci si riesca, ma dovrebbe agire anche sulla esiguità della propria destinazione. Dovrebbe riuscire a forare le resistenze dell’ascoltatore che di norma è riluttante. E si profila di conseguenza un compito culturale quasi disarmante, se consideriamo che il virus dell’indifferenza sta intaccando ogni comparto della vita sociale, dalla relazione famigliare all’educazione scolastica, insomma tutte le interazioni tra i soggetti.

[Pubblicato su “Il Piccolo” il 14 febbraio 2020]