di Pier Aldo Rovatti

Siamo tutti entrati in una condizione esistenziale nuova: in uno stato di fatto che riguarda per intero la nostra quotidianità ed è caratterizzato da uno svuotamento di quella vita che facevamo fino a ieri. Non dobbiamo cadere nell’angoscia, anche se è difficile svincolarci completamente da essa quando c’è l’obbligo di restare a casa e la socialità si è ridotta quasi a zero. Qualche opportunità sopravvive nel mare delle restrizioni? È necessario verificare se qualcosa si salva e magari scoprire che questa “cosa”, prima, non c’era.

Accade che gli spazi di vita si stringano attorno a noi come effetto dell’isolamento della popolazione dentro zone protette. Ormai questa protezione riguarda l’intero territorio nazionale e tende a diventare sempre più rigida, se vogliamo fronteggiare il drammatico crescere del contagio. E mentre i luoghi si riducono, fino a schiacciarci tra le pareti di casa, anche i tempi del vivere quotidiano si trasformano in pause di cui non valutiamo ancora la lunghezza.

Dobbiamo accettare di stare in un tempo fermo mentre siamo tutti abituati a tempi veloci, perfino velocissimi, in cui le ore corrono via e gli eventi si susseguono senza posa. Non sappiamo quanto è lunga una giornata vuota perché di solito la percorriamo di corsa, dalla mattina alla sera, senza tirare il fiato, affannosamente. Ormai, per noi, questo affanno si è identificato con il vivere stesso, che non può essere noioso ma sempre pieno di occasioni che alimentino la nostra attenzione senza lasciare tempi morti. L’horror vacui, l’orrore del vuoto, è ormai diventata la cifra della nostra quotidianità. La pausa ci sembra inutile e comunque fuori dalle normali abitudini.

E se invece la pausa si trasformasse in un’esperienza anche virtuosa, capace di recare vantaggi alla nostra vita? La domanda va inserita ovviamente nell’attuale contesto di paure e disagi, tuttavia può conservare una sua importanza. Ho dedicato gran parte delle mie energie intellettuali nel tentativo di fornire elementi per una risposta affermativa a questa domanda, insistendo sulla produttività del silenzio e sull’ipotesi che “abitare la distanza” sia una posta in gioco decisiva per la condizione della nostra soggettività. Ho sempre pensato che vivere nella pausa sia un obiettivo primario per noi abitatori della contemporaneità. Che serva per dare ossigeno al pensiero e per aprirci a un rapporto costruttivo con coloro che stanno accanto a noi. E soprattutto che realizzi un’interruzione, una rottura rispetto al flusso standardizzato che automaticamente accettiamo come l’unica ipotesi praticabile.

Sì, ma è davvero questo che possiamo ritagliare nell’attuale emergenza che ci costringe all’isolamento? Capisco perfettamente la dolorosa legittimità di una simile obiezione. La pausa dovrebbe essere una scelta da fare in condizioni di libertà, non l’imposizione che ci arriva da un allarme sociale e alla quale dobbiamo sottostare. Da cui le innumerevoli difficoltà che accompagnano un dispositivo che si presenta come una quarantena per prevenire una malattia tanto invisibile quanto insidiosa, dunque come un’esigenza prettamente terapeutica.

Ma, allora, mi chiedo se comunque essa non possa trasformarsi in un’opportunità, o almeno tentare di farlo. E se mi guardo attorno, già adesso, cioè agli inizi di questo brusco cambiamento delle abitudini, mi pare che si possano percepire dei precisi segnali che vanno in una direzione positiva. Uno per tutti, il fatto che sta crescendo un sentimento comunitario proprio nel momento in cui siamo forzosamente indotti a isolarci.

Ho l’impressione che l’esperienza della pausa possa agire al di là del suo carattere di imposizione. Che stia cominciando a sollecitare ciascuno di noi a una specie di frenata nella quale, paradossalmente, acquistiamo uno spazio di riflessione alquanto inabituale. Quasi che, proprio quando si restringono gli spazi materiali, possa manifestarsi in noi una responsabilità critica che allarga gli spazi di pensiero: quelli che investono la società che convive con noi in condizioni eccezionali ma accomunabili, e quelli che ci riguardano in prima persona come singoli individui che vedono molto più distintamente l’angustia dei propri schemi mentali.

Avrete notato che i toni stanno abbassandosi a tutti i livelli, dai politici fino al comune cittadino, quasi avessimo capito che le parole urlate producono poco o nulla e che, introducendo un po’ di silenzio nel nostro parlare, arrestando la nevrosi che intossica la comunicazione, riusciamo a capirci meglio.

E aggiungo un presagio: che tutti quanti ci accorgiamo che l’intossicazione da social ha poco a che fare con l’eventuale acquisto di esperienza che la pausa di cui sto parlando potrebbe produrre in ciascuno di noi.

[Pubblicato su “Il Piccolo” il 13 marzo 2020]