di Pier Aldo Rovatti

Se per un momento allarghiamo lo sguardo oltre le contingenze quotidiane della pandemia, possiamo accorgerci che si sta verificando un vero e proprio cambiamento di paradigma culturale. Il rapporto tra scienza e politica ci appare adesso molto diverso da quello che avevamo in mente, dove il sapere scientifico veniva considerato come neutrale mentre il sapere politico era il luogo privilegiato delle scelte responsabili rivolte ai cittadini.

Ci fu un grande dibattito a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso (e che oggi ancora sopravvive): allora si parlava di energia nucleare e di bomba atomica, nell’ipotesi addirittura di un conflitto planetario, e si profilava il rischio di una scienza potentissima ma ingenua, impegnata solo ad arricchire sé stessa di clamorosi successi, dunque eticamente povera, anzi disinteressata ai problemi della responsabilità pubblica.

Nel frattempo la ricerca scientifica è diventata una formidabile organizzazione mondiale, attraversata da molti interessi ma sempre più consapevole del suo ruolo pubblico. Di converso, lo scenario politico è risultato sempre meno credibile, rivelandosi in molti casi anche impreparato e inadatto ad assumere decisioni per il bene della comunità. La politica – come tutti possiamo constatare – assume piuttosto un ruolo vicario rispetto alle “regole” economiche e finanziarie.

Nella situazione attuale, dove tutto gira attorno al rischio cui è esposta la salute della collettività, il paradigma culturale si rovescia rispetto a quello tradizionale: gli esperti, gli specialisti, i ricercatori scientifici del settore epidemiologico sono di colpo saliti in cattedra e le loro opinioni, i loro consigli, le loro previsioni, hanno assunto un carattere di verità che travalica le verità che i politici sono in grado di esprimere e di affermare.

Il caso italiano è del tutto esplicito in proposito. Il governo ascolta l’Istituto superiore della sanità, prende le decisioni in accordo con il Comitato tecnico-scientifico su cui si appoggia, si munisce di cosiddette task force. Sul piano dell’informazione, ai virologi viene dato grande credito e spazio mediatico. Li ascoltiamo quasi incantati, come se fossero l’emanazione della verità. Scopriamo così che l’Italia è straordinariamente prolifica di specialisti e ricercatori, che sono anche riusciti ad avere posizioni di spicco negli Stati Uniti e altrove, nonostante la nostra ricerca scientifica sia sempre stata collocata in basso nella scala delle attività da finanziare e premiare da parte dei governi.

Di cosa è fatta questa “verità”? E può assumere in sé anche la responsabilità che pertiene solitamente ai politici? Alla prima domanda rispondo che al di sotto della superficie veritativa (o che noi assumiamo come tale) il pregio effettivo di questo sapere è costituito proprio dal suo carattere non dogmatico, grazie forse all’imprendibilità di un virus che nessuno può affermare di conoscere davvero. Voglio dire che i virologi (e con loro gli altri specialisti) non si azzardano ad affermare “è così”, durerà un periodo preciso, non ci saranno onde di ritorno. Noi vorremmo previsioni nette, loro non nascondono esitazioni e dubbi.

Significativamente, e paradossalmente, questa è la loro “verità”. Incerta nel suo fondo, tendenzialmente correggibile, una verità alquanto “debole” dovuta probabilmente al fatto che il virus che stanno studiando non si lascia bloccare in una categoria valida una volta per tutte. Anche la pluralità delle opinioni che essi esprimono potrebbe dunque essere vista come un elemento che non deprezza l’importanza di questo loro sapere.

La domanda sulla responsabilità è ancora più inquietante. Non possiamo attribuire agli specialisti il compito di una risposta, e loro sarebbero i primi a rifiutare una delega di carattere etico e pubblico. Ma neppure i governanti sembrano volersela assumere, basta osservare le difficoltà dei vari decreti che dovrebbero regolamentare il necessario allentarsi del distanziamento sociale in cui viviamo dall’inizio di marzo. Cercano di cavarsela, assai poco assistiti dal clima politico generale, porgono l’orecchio agli specialisti e – se potessero – rimanderebbero volentieri a loro la palla.

Ci siamo, però, anche noi, soggetti singoli e semplici cittadini. Chi ha detto che tra scienza e responsabilità debba esserci una binarietà tanto stretta ed esclusiva? L’etica pubblica non è delegabile ai governanti; inoltre, l’essere “pubblica” dell’etica non è una proprietà che viene prima delle pratiche civili dei singoli soggetti e le subordina. Nei mesi del forzato isolamento tali pratiche sono apparse con chiarezza attraverso un senso di responsabilità che nessuno aveva previsto. Perché lasciarlo cadere nella frenesia del “liberi tutti”, anziché farne tesoro, valorizzarlo, metterlo alla prova prima che il ritorno di un consumismo “irresponsabile”, pompato da molti interessi di profitto, disinfetti ogni virtuosa prova di responsabilità?

Su un muro vicino a casa mia qualcuno ha scritto: “Andrà tutto bene solo se andrà bene per tutti”.

[Pubblicato su “Il Piccolo”, 1° maggio 2020]