di Pier Aldo Rovatti

Bologna, 25 aprile

È giusto evidenziare le verità che ci vengono trasmesse ogni giorno dal mondo della scienza per bocca degli specialisti, ma il virus ha prodotto e sta continuando ad alimentare altre verità che non riguardano specificamente la salute fisica, semmai la nostra vita nel suo insieme come stile individuale e rapporto con gli altri.

Le verità degli scienziati non sono univoche: nonostante il notevole impegno dei ricercatori a livello planetario, il virus resta un oggetto misterioso e imprevedibile, al punto che nell’attesa di un vaccino, di cui già sappiamo che non sarà del tutto risolutivo, le uniche difese valide per fermare il contagio sembrano l’isolamento delle persone, le distanze di sicurezza, le mascherine per non mescolare i fiati e il disinfettarsi continuamente le mani. Per il resto, gli esperti fabbricano molte ipotesi, esplorano diverse spiegazioni e soprattutto ora ci consigliano una cautela ancora maggiore in questa fase di relativo rilascio della quarantena sociale.

Le verità che riguardano le nostre esistenze nel loro complesso sono a propria volta plurali ma contengono una cautela assai minore. Intellettuali di fama hanno dichiarato che tutto resterà come prima e forse peggio: a chi è ovviamente ansioso di sapere quando tornerà la normalità, viene risposto perfino che la normalità non è mai andata via, come se nessuna trasformazione ci avesse toccato in questi mesi. Molte altre voci di apparente saggezza consigliano la disillusione a tutti coloro che hanno sperato e ancora credono che sia avvenuto un cambiamento importante nel nostro modo di vivere. Eppure abbiamo attraversato un periodo difficilmente classificabile come normale e avevamo ricavato da tale eccezionalità il convincimento che niente sarà più come prima.

Quest’ultima verità ha un carattere di maggiore realismo rispetto alla versione nichilistica di chi vuole stupirci dicendo che nulla è cambiato e nulla cambierà. Non c’è dubbio che il virus abbia rimescolato le carte addirittura a livello mondiale. Ma questo sguardo più attento ai fatti si scinde e dà origine a versioni diverse della verità e a modi contrapposti di intendere l’“eccezionalità”. Uno guarda alla limitazione delle libertà come prodromo di un autoritarismo istituzionale. L’altro guarda alla possibile apertura dell’esperienza individuale e alle sue ripercussioni sulla società.

La crisi di ordine economico con tutte le sue pesanti conseguenze sulle strettoie lavorative, sulle disuguaglianze sociali e sull’incremento delle povertà, rivendica a voce sempre più alta quale sia la principale verità del virus, come negarlo? Ma non possiamo fermarci a questa constatazione, importante o essenziale che sia, perché vorrebbe dire passare un poderoso colpo di spugna su un altro fatto pure innegabile, che il virus ha cambiato qualcosa dentro le nostre teste e nelle nostre esistenze: qualcosa di altrettanto essenziale, e forse di più perché nessuno sarebbe disposto a barattarlo con un assegno di sussistenza.

Il governo ha il difficile compito di conciliare le verità scientifiche con la drammatica verità economica, e lo si vede bene dai problemi che caratterizzano la cosiddetta “fase 2”. E noi, gli individui, le soggettività, come la mettiamo con le questioni di verità che riguardano lo stato di eccezione nel quale scorrono i giorni delle nostre vite? Sull’equazione emergenza = svolta autoritaria va detto, intanto, che gli occhi di tutti sono più aperti di prima: la netta impressione è che l’isolamento forzato ci abbia vaccinato rispetto a quest’altra infezione, con il risultato che il populismo ingenuo stia forse esaurendo il suo tempo e sempre meno siamo disposti a una irriflessa cessione emotiva della nostra soggettività.

Non ci conviene, e soprattutto sarebbe un’analisi bugiarda, disconoscere che dall’emergenza si sia prodotto un plus di responsabilità individuale. Questa faccia della verità si annoda con le altre immagini meno promettenti di cui ho parlato: sarà pure solo un pezzo di verità, ma evitare di considerarlo è uno sbaglio perché da lì scaturisce un po’ di chiarore per il nostro futuro e a nessuno di noi conviene oscurarlo.

Dunque, il senso di responsabilità che abbiamo guadagnato nell’isolamento, questo minimo di etica di cui ci siamo dotati, dovremmo adesso metterlo a frutto. L’egoismo è certo ancora galoppante e si nutre, come sappiamo, di un’idea di libertà alquanto astratta. Lo ha detto bene Ezio Mauro in un recente editoriale su “la Repubblica”: se vogliamo ridare vita alla parola “democrazia”, oggi abbastanza acciaccata, dobbiamo far stare assieme l’egoismo e la libertà. Ecco cosa può significare essere responsabili: contenere il nostro sfrenato egoismo nel momento stesso in cui ci rendiamo conto di dover mettere da parte la voglia di una libertà senza freni.

Sarebbe una diminuzione, una rinuncia? Solo all’apparenza. In realtà, potrebbe essere l’assunzione di un compito individuale e sociale, culturale, che ci alleggerirebbe del peso dell’egocrazia dominante, di quello che oggi rappresenta visibilmente il male maggiore di cui ormai soffriamo tutti e che finora non abbiamo saputo né voluto affrontare. Tra le molte verità scodellate dalla pandemia, è questo aspetto, pur mescolato con gli altri, che ci potrebbe salvare.

[pubblicato su “Il Piccolo” venerdì 8 maggio 2020]