di Alessandro Di Grazia

Vorrei condividere con chi legge e con chi parteciperà al laboratorio di questa edizione della Scuola di Filosofia di Trieste, alcune suggestioni che potrebbero indicare qualcosa delle intenzioni riposte in questo percorso che partirà domenica 10 gennaio 2016.

Mi interessa far percepire ovviamente non un programma di studi o una direzione verso la quale condurre il lavoro, ma una sorta di atmosfera riflessiva che mi porto dietro, o davanti, a seconda dei punti di vista.

Credo di essere sicuro che, al di là dei temi specifici che possono essere esaminati, la qualità e l’intensità del lavoro che svolgeremo è anche una questione di “come” oltre che di “cosa”.

Questo è il motivo per cui, e in questo mi sento in sintonia con una delle prerogative essenziali delle pratiche filosofiche, non mi appoggerò a nessuna teoria determinata. Il discorso complessivo che potrà sorgere dal nostro lavoro sarà ibrido teoreticamente e, spero, vitalmente bastardo.

Cercheremo di osservare idee e costruzioni nel tentativo di creare una toponomastica intellettuale, un villaggio, una cartografia dei nostri modi di intendere il tema proposto dalla scuola quest’anno.

Personalmente non credo all’immagine di mediazione pura che caratterizzerebbe il filosofo delle pratiche, o come lo si voglia chiamare. Credo che agire secondo una tale prerogativa sia contrario allo spirito della scommessa dei nostri incontri. L’unica possibilità è un realismo dei giochi di forza tra di noi. Sono quindi consapevole che anche non volendolo, indirizzerò, almeno parzialmente, l’andamento delle nostre riflessioni. Ma in questo chi parteciperà al laboratorio mi farà senz’altro buona compagnia.

Il potere di fatto produce continuamente effetti e controeffetti a cui ci si può sottrarre solo con un’immissione in più di forza, a volte e spesso non richiesta.

C’è sempre un “’implicito del soggetto”, un non detto, che è più efficace ed “intelligente” delle intelligenze che si palesano. È a questa dimensione implicita che il laboratorio timidamente dovrebbe rivolgersi e se non ci riuscisse, potremmo almeno riflettere sul fatto se essere d’accordo che i giochi veri, anche e soprattutto quelli “duri”, avvengono tacitamente e al di sotto delle intenzionalità espresse.

Nel caso di quel potere al quale per convenienza siamo soliti attribuire la P maiuscola, la spettacolarizzazione delle sue azioni sembra nascondere con perseveranza i fatti “veri”, per cui ci sarebbe sempre un “retro” scena della storia, quel terreno fertile del complottismo che incessantemente vorremmo dissodare e sterilizzare, puerilmente, con una dose di indignazione.

D’altro canto, rispetto alle nostre condotte, potremmo ben dire di essere molto spesso le vittime dei nostri complotti e dei nostri piccoli e privatissimi colpi di stato.

Forse uno dei compiti possibili di un laboratorio potrebbe essere di imparare a saperne qualcosa di questo tramestio dal vago sapore paranoico.

Un modo intelligente per costruirsi dei cartelli indicatori su questa strada è la lettura, ma anche la scrittura. Lo scritto e il libro sono così carichi di ambivalenza da permetterci addirittura di fantasticare e sappiamo che spesso le fantasie più potenti non hanno un aspetto allucinatorio, ma quello della razionalità. Il libro di fatto è un oggetto di massima ambivalenza oscillando instancabilmente tra vita e morte. Da qui la sua seduzione, ma anche la ripulsa che sempre ne accompagna la presenza. Forse i testi più veri sono le istruzioni degli elettrodomestici. D’altra parte però niente come alcune letture hanno segnato in noi, o comunque in me sicuramente, delle svolte, delle fratture esistenziali, degli scarti e quindi dei cambiamenti nelle condotte. Se a ritroso faccio una carrellata di queste opere, poche in definitiva, mi accorgo di una coerenza e di una continuità che mi definisce, pur nelle contraddizioni biografiche, in modo più sincero di qualsiasi discorso che potrei fare su me stesso. Anche qui c’è ovviamente il pericolo di “letterarizzare” una vita, la mia in questo caso, e uscire così dalla realtà per dare corpo ad una trama di illusioni.

Questo particolare rapporto di me a me stesso rappresenta un determinato tipo di esercizio che è costituito dallo stare in mezzo tra una mai sopita aspirazione alla verità – anche su me stesso – e la visione più o meno chiara del livello narrativo-fantasticante su me stesso. Anche la chiarificazione della natura di questa medietas potrebbe essere l’obiettivo di un laboratorio.

Kurt Vonnegut disse che per lui la forma occidentale di meditazione era la lettura e, paradossalmente, su di una sponda opposta si trovava S. Weil che esprimeva più di una riserva sulla letteratura, ritenendola un fattore di corruzione per l’anima, seguendo così l’aspirazione del Platone gnostico a svalutare la parola scritta in favore di quella parlata.

Il libro, quindi, la pratica filosofica, qualsiasi esercizio e ogni atletica ascetica non sono oggetti neutri che possiamo maneggiare senza esserne modificati in un senso o in un altro. Per lo più, ma non necessariamente, la vita sociale ordinaria, come ad esempio quella del lavoro, a differenza di essi, non contiene un plus di intenzionalità, fosse anche di tipo negativo.

Essere messi in gioco o mettersi in gioco ha senz’altro a che fare con il futuro, con una domanda su come potrei essere o su cosa potrei diventare ed anche su come potrebbe essere il mondo in cui vivo in conseguenza di un cambiamento. Uno dei poli attrattivi di tutto ciò che è connesso con il mettersi in gioco è l’idea di speranza – che tra parentesi è uno dei fuochi di quella traiettoria di letture cui accennavo prima. In particolare l’impossibilità di sperare, una sorta di speranza negativa è quanto vorrei sottoporre a riflessione nel tentativo di generare un po’ di “atmosfera”.

Il nostro è il tempo della fine del futuro, dell’assenza di progettualità – politica, esistenziale e sociale – dell’oblio della trascendenza a favore di un’immanentizzazione generalizzata delle condotte e degli stili di pensiero. Eccetto per quella di tipo scientifico, una propensione al trascendente non può che essere l’oggetto di riprovazione estetica e morale. Di fatto la scienza-tecnica sembra aver preso quasi del tutto il posto della trascendenza vecchio stampo di natura religiosa. Dietro la linea dell’orizzonte delle speranze mancate, della disillusione potenziata e della performance atletica, tramontano tutte le forme di trascendenza che garantivano riparo, conforto e riposo; nemmeno l’esperienza amorosa è al riparo da questo uragano tanto inquietante quanto necessario. Le dimensioni del calcolo, della sopravvalutazione, della convenienza, dell’autosalvaguardia e dello scambio sono penetrate nelle più profonde fibre emozionali, intellettuali e sentimentali della soggettività. E questo apre ad un paradosso esistenziale: siamo caratterizzati e inchiodati a credere e a non credere allo stresso tempo. Credere di essere messi fuori gioco dal reale (un termine che possiamo qui usare tanto secondo il senso comune, quanto secondo il senso che gli attribuisce Lacan) e allo stesso tempo sentirsi, come noi tutti ci sentiamo più o meno, sul bordo o all’interno di un processo catastrofico attraverso il quale stiamo diventando o siamo già diventati irriconoscibili a noi stessi. Sembra di essere posti all’interno di una rottura della storia, di uno spartiacque al di là del quale non c’è garanzia di approdo, cosa che d’altronde ha anche le sue piacevoli implicazioni!

Tra la protezione di uno spesso vetro ed essere sottoposti ad un’inaudita pressione dall’interno che sembra avere le parole della nostra stessa voce, ci aggiriamo smarriti in una perenne alterazione di noi stessi.

Per onestà intellettuale non possiamo proclamarci fedeli, per dignità etica non possiamo coltivare messianismi e quindi sperare, e per lucidità non possiamo autorizzarci a spendere la parola amore. Per fortuna quest’ultimo divieto è contraddetto dalla schiavitù e dalla submission a quanto è necessario.

L’unica trascendenza sul mercato è quella tecno-scientifica che però non è semplicemente continuità di quella religiosa, ma ne rappresenta anche il rovesciamento e forse anche una parodia. Al contrario delle religioni tradizionali, quella secolare e capitalistica, promette superamento di sé senza salvazione e autopotenziamento senza redenzione.

Il prefisso “auto” non è un incidente, ma una nuova e pervasiva condizione antropologica che, abbinato a “referenzialità”, ci dà la cifra dello scivolamento verso un’alterazione immobile di tutti i livelli, sociale, politico e soggettivo.

Ora la posta in gioco vera sembra essere: è possibile tenere insieme immanenza e trascendenza senza il rischio di rendersi ridicoli? C’è una via d’uscita dall’“auto” senza il rischio di generare altre e più pericolose parodie?