Come nel caso della “medicalizzazione” ipotizzo che la “pedagogizzazione” funzioni nella nostra società come un paradigma culturale per opera del quale la vita degli individui è indotta a corrispondere ai modelli del “crescere” e dell’ “educare”, e quindi può essere valutata in base a tale conformità. Il nesso con la scuola è di tipo transitivo: questo paradigma, che ha a che fare ovviamente con la scuola, viene poi applicato alla scuola stessa.

Il sapere della pedagogia è qui in gioco solo lateralmente. Centrale è piuttosto l’idea del “bambino” (pais) che noi siamo e che rischieremmo di rimanere se non cessassimo di diventare “adulti” e dunque di crescere. Bambino inesistente, illusorio (starei per dire “metafisico”), che da valore si trasforma in disvalore sociale se non viene tacitato e soppresso dalla “serietà” adulta. L’esperienza negata del gioco è un paradigma nel paradigma.

Non bisognerebbe mai smettere di crescere e di contribuire alla crescita: quando ciò accade diventiamo socialmente nulli, esclusi. Altrettanto vale per l’ “educare”, innanzi tutto se stessi e insieme gli altri: dovremmo tirarci fuori dalla condizione infantile servendoci di tutti gli strumenti educativi di cui riusciamo a disporre. Se la condizione della medicalizzazione è la passività, quella della pedagogizzazione è l’ansia quotidiana di migliorare se stessi attraverso le competenze e le competizioni da superare. Quest’ansia è altrettanto paralizzante ma contiene continue promesse rinforzate da continue batterie di premi sociali. La logica del vincere oscura il piacere disinteressato del giocare, e vorremmo subito che i nostri figli, fin da piccoli, ne apprendessero l’importanza per la vita.

Come atteggiarsi per criticare tale paradigma? Innanzi tutto smascherandolo, tuttavia non basta perché smascherarlo non ne produce la soppressione. Piuttosto potremmo viverci dentro cercando di sabotarlo, ma essendo ben consapevoli che non ne siamo immuni, anzi che c’è sempre in noi la tendenza ad assecondarlo. Un esempio a caldo: cosa chiediamo a una scuola di filosofia, per quanto critica possa essere? Non è così semplice rispondere a questa domanda. C’è sempre di mezzo il piacere di “crescere”, e allora la domanda diventa: come lo assecondiamo falsificandolo? Oppure: come può questa falsificazione della pedagogizzazione della vita raccoglierne la spinta che vi agisce deformata? Si può “crescere” senza impantanarsi nell’ideologia della crescita? Possiamo “educare” noi stessi senza impigliarci nelle reti educative? È possibile “apprendere” e “insegnare” senza sopprimere l’infanzia che è in noi e nei nostri figli?

Pier Aldo Rovatti