di Pier Aldo Rovatti

La parola “barbaro” è tornata ad abitare i commenti sulla scena politica. È un termine molto incisivo che riporta dal lontano passato un atteggiamento sprezzante e distruttivo. Oggi lo si adopera per minorizzare gli “altri”, quelli diversi da noi, come è il caso dei migranti. Chi conserva ancora una coscienza critica si scandalizza di fronte a questo uso che – come sappiamo – ha innervato la parte più greve dell’attuale propaganda governativa, quella che viene rivolta alla “pancia” della gente e attraverso la quale le parole diventano dispositivi di restrizione.

Quando denunciamo proprio come barbarie simile atteggiamento di disprezzo con le sue conseguenze, applichiamo questa parola a coloro che lo promuovono e lo sostengono: barbari sarebbero appunto quanti favoriscono consapevolmente una politica di discriminazione, neppure parente dell’idea di democrazia e completamente opposta a ogni effettiva pratica di libertà. Barbari non sono quei disgraziati che vengono raccolti in mare, quando non vi affogano, e pretendono di sbarcare nei nostri porti grazie alla complicità di sedicenti salvatori, bensì quei politici che ce li presentano come sotto-uomini, cioè privi di ogni qualità che li caratterizzi come “uomini” (o “donne”) e dotati solo di aggressività “animalesca”. È dunque opportuno spostare lo sguardo per rivolgerlo piuttosto a chi alimenta tale visione. Loro sono i “veri” barbari, quelli cioè che attizzano quotidianamente questa ideologia e la paura che ne consegue.

Qualche anno fa ho intitolato una mia raccolta di testi brevi Noi, i barbari. Ecco, ciò che mi preme evidenziare qui è proprio la non scontata ipotesi di verità contenuta in quel titolo: che cioè lo spostamento di prospettiva che ho appena auspicato sia opportuno e perfino doveroso, ma non sufficiente. Infatti, a veder bene, esso lascia intatto il posto che assegniamo alla parola “barbaro” nella misura stessa in cui contrappone noi agli altri, “noi” civili che saremmo indenni da ogni barbarie a “loro” ritenuti responsabili di una effettiva e nuova barbarie.

Non basta, perché questo declinare di civiltà ci riguarda da vicino e percepibilmente ci unisce tutti nel suo abbraccio. Ma cosa dici – sento già esclamare –, che stiamo diventando tutti barbari? Sì, qualcosa del genere, e per accorgercene è sufficiente considerare come vada trasformandosi (peggio, come è già cambiato) il nostro comune stile di vita che sta declinando in una forma sempre più accentuata di consumismo. Non è un caso che quei politici che oggi detengono un’indiscussa leadership abbiano ricevuto un vasto consenso e siano acclamati nelle piazze e condivisi dentro le case degli italiani.

Se imputiamo loro di essere i “nuovi barbari” per le parole che usano, gli atteggiamenti che assumono, le decisioni politiche che prendono, tutti coloro che li approvano dicono a loro modo di sì alla barbarie. E se lo fanno si deve al fatto che esiste ormai una linea di continuità tra le loro pesanti parole (e gli atti che le accompagnano) e l’inclinazione di ciascuno verso la negazione di qualunque etica (pubblica o privata) che metta in dubbio il godimento individuale dei beni materiali.

Chi ha annunciato con chiarezza un simile imbarbarimento non va ricercato, a mio parere, in alcuni grandi classici del pensiero politico (come Machiavelli), ma in pensieri recenti di piccolo formato come, per esempio, quello di Pasolini. Pensieri senza tanta aura, però in grado di metterci in guardia sul fatto che l’imbarbarimento che stiamo silenziosamente alimentando non lascia spazio a eccezioni, poiché nessuno oggi può davvero chiamarsi fuori da uno “stile” di esistenza consumistico e individualistico che sta bruciando ogni effettiva pratica di socializzazione.

Certo, sopravvive lo statuto della cosiddetta doppia verità, nel senso che molti agiscono pubblicamente in un modo e razzolano privatamente nella maniera opposta. Questo nei casi migliori, che vorrei credere rappresentino la maggioranza, dato che nei peggiori un aperto cinismo si disinteressa di apparire doppio e anzi mostra apertamente ciò che desidera, senza tante maschere.

Che fare, se le cose stanno davvero così? Credo che la strada più conveniente sia tentare di riconoscere la nostra parte nel processo complessivo di imbarbarimento. Non possiamo tirarcene fuori sollevandoci per i capelli. Potremmo solo cercare di essere consapevoli di quanto ciascuno di noi sia attirato dalla barbarie e vi stia dentro: partire da qui per un percorso non fasullo di presa di coscienza, costruire un minimo di pensiero critico privo di infingimenti, senza illuderci che impugnando alcune belle idee possiamo salvare l’anima, poiché così rimarremmo inchiodati alla barbarie.

[pubblicato su “Il Piccolo”, 23 agosto 2019]