di Pier Aldo Rovatti

Ecco due parole che forse descrivono la grande difficoltà in cui ci troviamo: “fuori controllo”. Ci capita di ascoltarle e magari di pronunciarle sovrappensiero, come un messaggio solo negativo. Vale invece la pena di fermarsi, poiché il loro significato non è univoco come sembra, non è una dichiarazione di pessimismo radicale o di resa incondizionata di fronte al crescere della pandemia.

Abbiamo fretta, e si capisce bene, ma la fretta non è sempre un buon viatico. Ogni tanto è opportuno rallentare. Per esempio, a chi, a che cosa, come dobbiamo riferire e intendere questo “fuori controllo”? Non è un giochetto intellettuale o una perdita di tempo arrestarsi un momento a riflettere, se ci serve per renderci conto che altro è riferirsi al virus, altra cosa è riferirsi alla nostra condizione di contagiati e contagiabili (e alle pratiche di cui disponiamo per difenderci clinicamente, socialmente e politicamente).

Una cosa rimbalza sull’altra, ma il riuscire a differenziarle ci permetterebbe di liberarci da una conclusione affrettata e controproducente. Il virus non si ferma, non scappa via, va per la sua strada, secondo la sua natura. Forse possiamo, potremo rallentarlo con vaccini adatti, però già fin d’ora sappiamo che non si tratterà di uno stop definitivo, solo di un antidoto ancora parziale per moderarne gli effetti catastrofici.

Questa constatazione ha un contraccolpo sulle nostre consapevolezze: occorre infatti chiarire a noi stessi che la situazione è tale non solo da contenere le fughe ottimistiche ma da indurci a costruire risposte adeguate, nel senso di non illuderci sulla loro potenza e di ricavare da simile disillusione gli strumenti di consapevolezza e di responsabilità che possono servirci. In breve: è assurdo sorridere sulle mascherine e sui distanziamenti, considerando che non abbiamo molto altro a disposizione per convivere, come siamo costretti, insieme al virus.

Ma guardiamoci attorno. Non abbiamo bisogno di raffinati sondaggi sui comportamenti sociali che si propagano quotidianamente intorno a noi (al di là delle telediscussioni pubbliche, basta ascoltare cosa si dice e percepire l’aria che tira giù in strada) per toccare con mano il fatto che i “negazionisti” stanno proliferando e che il loro terreno di coltura è fornito dall’area ormai estesissima dei cosiddetti “semplificatori”. Gli uni e gli altri negano in sostanza che al virus possa attribuirsi qualcosa di incontrollabile.

I negazionisti non hanno neppure bisogno di essere identificati come “complottisti” per venire riconosciuti come coloro che credono (davvero, più che solo per comodo) che la pandemia sia un’invenzione, un’illusione collettiva. Non entro nel merito di un fenomeno ormai ben noto (e radicato) e sui gesti individuali che veicola, e non voglio qui scendere sul terreno delle speculazioni materiali cui apre la strada: è chiaro, infatti, che pensando così si assicura un passaporto di libertà, come è palese che attorno alla pandemia si accalcano interessi e manovre dettate da calcoli economici.

Mi pare più opportuno rivolgere l’attenzione a quell’esercito di semplificatori che si sta ingrossando di giorno in giorno: dentro di esso andrebbero, certo, segnate distinzioni di grado e di qualità, ma è difficile non vederlo all’opera e ignorare quanto sia vicino a ciascuno di noi, dato che è normale scegliere le idee più semplici e liberarci dal peso di quelle più complesse. Facendo così, tuttavia, rischiamo di bordeggiare il territorio del negazionismo.

Non esiste, qui come altrove, una risposta binaria, un sì contrapposto a un no: un “controllo” del virus, opposto a un suo “fuori controllo”. Quella che esplode, infatti, è precisamente la pretesa, tutta nostra, tutta soggettiva, di controllare ciò che come tale non è controllabile, a partire dalla complessità del fenomeno per arrivare alla fallace pretesa che questo fenomeno in sé stesso “debba” essere controllabile.

Rifiutiamo l’insicurezza che potrebbe derivare da una simile situazione, ma facendolo ci costruiamo una zona artificiale di rassicurazione. Forse è da qui che discendono i nostri incessanti affanni, le liti con i governanti che non avrebbero provveduto abbastanza, la vis polemica con cui scendiamo in piazza reclamando la libertà e le tutele perdute, senza percepire bene in che situazione ci troviamo e con quanta fatica riusciamo a ragionarci su.

[Pubblicato su “Il Piccolo” , 30 ottobre 2020]