di Pier Aldo Rovatti

Gli isolamenti sono stati modi per difendersi ma anche per attaccare. La storia moderna ci ha dato esempi drammatici dei dispositivi per isolare i nemici concentrandoli in “campi” separati che si sono trasformati dal semplice ghetto a quei Lager di cui vogliamo conservare la memoria. Ma basta allargare lo sguardo attorno a noi per verificare che queste “tecniche”, che si spingono molto indietro nel nostro passato, non si sono affatto estinte, continuano a riprodursi e popoleranno il prossimo futuro.

Insomma, isolamento è una parola che ha innanzi tutto un suono minaccioso. Certo, adesso ne stiamo parlando in una maniera completamente diversa: le “zone rosse” che abbiamo creato dove era necessario hanno un carattere terapeutico e servono per difenderci davvero dal contagio di una malattia infettiva che altrimenti si diffonderebbe senza controllo. Sottolineo “davvero” perché l’immagine di una pestilenza da rinchiudere, che nasce dalla peste intesa alla lettera come morbo, è diventata una terribile metafora con cui identificare persone, gruppi, popoli, razze da isolare, finanche alla soppressione, in quanto esseri malati o portatori di una “malattia” socialmente pericolosa.

A tutti noi sono rimaste nella mente le sequenze visive di Wuhan, il focolaio cinese del cosiddetto coronavirus: milioni di abitanti spariti, una grande città desertificata da un giorno all’altro. Il nostro equivalente locale, pur modesto al confronto, non è meno inquietante con le strade svuotate e i supermarket presi d’assalto. Ma non c’è bisogno dei video e neppure di trovarci in quella parte di Lombardia dove il contagio si è manifestato e la conseguente paura si è diffusa tra la gente. Martedì scorso, qui a Trieste, salendo su un taxi alle otto e mezza di mattina, il conducente mi ha detto che, visto che ero solo il secondo cliente da quando aveva iniziato il turno, stava pensando di tornarsene a casa; aggiungo che nello studio medico dove avevo appuntamento io ero l’unico assieme alla terapista che mi aspettava.

I provvedimenti istituzionali stanno creando una situazione di isolamento delle persone nelle proprie case. Quello che però mi interessa osservare non è tanto se le disposizioni siano adeguate o troppo severe, se tranquillizzino o contribuiscano a rinforzare una psicosi della paura. Vorrei portare all’attenzione il fatto, poco scontato, che quasi nessuno si ribella di fronte a questa prevenzione, ma non perché stia prevalendo d’improvviso il senso civico e l’accettazione condivisa di una necessaria limitazione della libertà individuale, nella consapevolezza che solo così si esce dal rischio di una pandemia. Non escludo ovviamente la parziale insorgenza di una tale coscienza civile, così come è difficile escludere soglie di disinteresse e di accettazione passiva di ciò che viene imposto. La cosa che mi colpisce è invece che vi sia una sorta di partecipazione all’auto-isolamento.

Basta la temporanea chiusura delle scuole per dare evidenza a un disagio nelle famiglie: si tratta di riorganizzarsi in modo da rispondere ai bisogni dei figli più piccoli, problema non così trascurabile, specie se prolungato nel tempo. Le anime buone che dicono che così si fornisce un’opportunità alle deficienze di socialità di cui spesso soffrono le famiglie (“ecco un’occasione per stare finalmente assieme”), meritano un sorriso di compiacenza: sembra poco probabile che l’isolamento forzato produca convivialità e senso della comunità, risulta invece più probabile il contrario, che vengano alimentate le insofferenze private e un clima di ansia.

E se ci fosse anche un’ansia positiva verso l’isolarsi? Qualcosa di simile a un desiderio di chiudersi in sé stessi, non per soffrire, cioè non masochisticamente, ma per vivere bloccati nella propria isola? Volendo, si potrebbe addirittura vedere un anomalo legame tra il sovranismo populistico che ha “contagiato” politicamente una cospicua fetta di italiani e l’attuale isolamento che sta subendo il paese-Italia con il danno economico evidente che ne deriva. Più che un intreccio paradossale, sembrerebbe però una nemesi assai poco godibile: i sovranisti anti-europei dovrebbero rifletterci.

Semmai, tornando alla sfera privata, dato che è qui che si gioca davvero la partita culturale, la connessione potrebbe essere tra un regime di isolamento imposto e la tendenza ormai riconosciuta a barricarsi individualmente dentro il consumo digitale. Questa sfera è già, a suo modo, una zona rossa che ognuno di noi si sta costruendo nella sua casa.

Non è una caricatura la scena famigliare in cui ciascuno sta lì, in soggiorno, apparentemente assieme agli altri ma assolutamente per conto proprio, in silenzio, con il suo piccolo dispositivo in mano, a sfogliare Facebook e i vari social. Adesso questa scena potrebbe diventare obbligata e pienamente legittima: individui isolati con il mondo apparentemente a disposizione.

[Pubblicato su “Il Piccolo” il 28 febbraio 2020]