di Pier Aldo Rovatti

“Ciò che è normale trovatelo strano” era un invito a pensare che molti di noi hanno ricavato da pagine di saggezza ora dimenticate. Il fatto è che oggi le cose sembrano rovesciate, al punto che la semplice normalità appare estranea al nostro modo di vivere tutto teso a emergere dal gruppo. Arriverei a dire che siamo talmente coinvolti nella gara per diventare qualcuno che non si confonda con gli altri, attraversando anche disagi e sconfitte, che non sappiamo più cosa significhi essere normali.

Sembra che la normalità possa quasi trasformarsi in qualcosa da buttar via ed è opportuno che ce ne accorgiamo, e lanciamo un adeguato allarme, prima che la società diventi un aggregato di “anormali” che hanno smarrito la bussola. Bisognerebbe innanzi tutto capire quali metamorfosi ha subìto quello che un tempo chiamavamo appunto “normale”: per farlo, basterebbe passare in rassegna le maniere con cui attualmente attribuiamo questa parola alle situazioni che stiamo vivendo.

È “normale” che ciascuno di noi faccia centro su sé stesso dando la massima importanza al proprio ego. È “normale” che le persone non siano più interessate ad ascoltarsi e sembrino diventate sorde, dunque poco adatte a relazionarsi tra loro. Ormai “normali”, a ogni livello della società, sono le liti e gli insulti, mentre poco normale è che si vogliano trovare accordi reciproci, ciascuno rinunciando alla fretta di far prevalere le proprie istanze. Ecco alcuni esempi di una condizione ormai generalizzata e accettata come ovvio, prendere o lasciare.

Che così si riesca ad avere molto poco e si lasci o si perda l’essenziale non preoccupa più di tanto in una società nella quale ognuno “deve” prendere quello che può, poco che sia, prima che arrivi il vicino a portarglielo via. Gli spazi sono ristretti, i posti scarseggiano, le risorse anche: occorre dunque affrettarsi per avere qualcosa. È questa dunque la logica che caratterizza la nostra fretta di “esserci”, e anche il tempo a disposizione è estremamente limitato. Se indugi ti sorpassano, se prendi tempo per riflettere hai già perso la tua chance, e allora devi correre senza fermarti, ossessivamente.

È curioso e sintomatico che il movimento delle cosiddette Sardine abbia tanto colpito l’immaginario generale: ha semplicemente riportato alla superficie una dimensione della normalità che tendiamo di solito a cancellare a vantaggio di quella artificiosa che ho appena evocato. Ma come? Non alzano la voce, anzi criticano chi lo fa, propongono la tolleranza dei diversi punti di vista al posto della prepotenza delle verità esclusive, chiedono un’etica minima dello stare insieme. Dovrebbero essere stati d’animo e pratiche ovvie, invece ci colpiscono come espressioni di qualcosa che fa eccezione nell’insieme al quale siamo abituati.

Questo esempio ci racconta che abbiamo perso di vista quella che dovrebbe essere (che è?) la nostra normalità, sovrastata e devastata da una “logica del normale” che ormai ingombra le nostre teste. Ci mostra lo scontro tra una “falsa” normalità ormai dominante e una “vera” normalità che tendiamo a soffocare e anche a sopprimere come inessenziale e perfino dannosa per noi stessi.

Vale allora la pena di chiedersi, nell’ammasso di discorsi che ci si affollano attorno per illuminarci sulle complessità del mondo in cui viviamo, che ne è, che cosa è diventata la nostra soggettività. Domanda un po’ roboante, mi rendo conto, ma qui ci mancano le parole (come qualche filosofo intelligente ha ben capito): insomma, che soggetti stiamo diventando, chi siamo. Se i nostri sensi si sono così rattrappiti da non riuscire più a percepire ciò che dovrebbe essere del tutto normale, cioè darsi il tempo e il modo per praticare un esercizio minimo di riflessione su noi stessi, il soggetto che stiamo diventando rischia di essere ormai irriconoscibile come tale. E non è un piccolo allarme, come si può capire.

Tornando alla frase brechtiana da cui sono partito, non si tratta poi di rovesciarla davvero, se attribuiamo la “stranezza” della normalità che lì viene evidenziata criticamente a quell’artificioso “normale” che pervade oggi le nostre esistenze e che dovremmo riuscire a smascherare per cercare di resuscitare una condizione di normalità alla quale sembriamo disinteressati: un orizzonte smarrito, svuotato di appeal e perciò sospinto in un angolo, quasi fosse degno della pattumiera. Ritiriamolo fuori, senza ulteriori rimandi.

[pubblicato su “Il Piccolo”, il 21 febbraio 2020]