di Pier Aldo Rovatti

Forse Freud ci aiuta un po’ a capire che cosa sta accadendo, quale sia il senso delle informazioni che ci arrivano dai giornali e dalla televisione. Penso all’impatto che ha su di noi la vicenda cinese dell’epidemia del coronavirus e al modo con cui ci viene comunicata. “Senza allarmismi”, ecco la locuzione che ricorre continuamente in ogni servizio e in ogni cronaca, quasi fosse una necessaria punteggiatura, sulla quale vorrei fare qualche riflessione assieme al lettore.

Freud ci può aiutare quando parla di “denegazione” (Verneinung nella sua lingua), facendoci vedere che spesso la nostra preoccupazione di dare un carattere negativo a quello che stiamo dicendo è un modo per affermarlo, proprio attraverso l’esplicito movimento con cui prendiamo distanza da esso. “Niente allarmismi” sarebbe appunto una negazione che vorrebbe sostenersi sul fatto che non ci sono pericoli e tutto è sotto controllo, mentre all’opposto staremmo descrivendo con immagini e parole una situazione effettivamente allarmante. Fate la prova voi stessi solo scorrendo le prime pagine dei quotidiani o magari guardando le riprese televisive di Wuhan desertificata (ma anche quelle all’apparenza tranquille dello sbarco a Roma dei 56 italiani avviati alla loro quarantena).

Non è facile pensare che una sequenza di testimonianze a noi vicine, per esempio quelle sulle difficoltà dei ristoranti cinesi o sullo strisciante sospetto generale che circonda in questi giorni i cinesi per strada e i loro figli nelle scuole a contatto con i nostri, costituisca uno scenario tranquillizzante. Poi ci sono i numeri che giungono dal cuore pur lontano della vicenda, i contagiati e coloro che hanno dovuto soccombere al virus, che preoccupano nonostante i tentativi di smussarli a paragone con epidemie passate. Anche se non volessimo drammatizzare il tonfo del turismo e il quadro complessivo dei contraccolpi economici, la sensazione che comunque passa è quella di una grande e motivata inquietudine.

A tutti i livelli si può cogliere una situazione di allarme, che lo scenario delle mascherine protettive teatralizza esplicitamente. E allora come dovremmo caratterizzare questo quadro? “Allarme, ma senza allarmismo”? Forse, giocando sulle sfumature di colore da dare a un fenomeno alla cui pericolosità non vogliamo e non possiamo girare le spalle. Ma di sicuro dire e ripetere che è “senza allarmismo” significa solo cercare di distogliere lo sguardo della gente dalle sue ombre negative. Se poi lo si fa in modo scoperto, continuando a iterare la formula acquietante, si può ottenere (per “denegazione”, appunto) l’esatto contrario. Sarebbe più opportuno abbassare un poco la retorica del “tutto va bene”.

Lo stesso ministro della Salute non si è trattenuto dal ripetere quel “niente allarmismi” che può rivoltarsi nel suo contrario. Ma ci sono altri episodi che vorrebbero dare un aspetto encomiabile a ciò che si sta facendo, come la sottolineatura un po’ eccessiva a quei ricercatori dello Spallanzani di Roma che sono riusciti a “isolare” il virus, quasi a bilanciare il timore dell’allarme. Ci vorranno mesi per mettere a punto un vaccino, va ricordato; così come non è inutile menzionare il fatto che non siamo stati i primi in Europa. Una spolverata di sovranismo (anche involontario) non è sufficiente a sopire le preoccupazioni, che da noi hanno già assunto una piega sociale prima ancora che medica.

Allarmante, infatti, è la mobilitazione di un’ulteriore forma di “paura” dell’altro considerato come diverso: in questo caso, al colore della pelle (indice di una differente conformazione fisica) si aggiunge il rischio immaginario di un contagio attraverso il contatto: meglio star lontani indossando una invisibile ma realissima mascherina di difesa sociale, qualcosa come un efficace vaccino culturale.

In un mondo che mescola sempre di più le persone, per tanti e non sempre virtuosi motivi di interesse, e che comunque esige che prenda piede una cultura cosmopolitica, è perfino paradossale che il semplice contatto con l’altro possa ogni volta rischiare di trasformarsi in episodi di quarantena sociale. Rivendicare, in questo come in casi analoghi, la nostra piena immunità sembrerebbe un gesto minimo di civiltà. Si tratta poi di verificare se ogni volta siamo davvero all’altezza di un simile compito, facile da sbandierare, molto difficile da portare a termine.

Credo che la vicenda del coronavirus, ben lontana dall’essere sotto un pieno controllo, metta in allarme anche la nostra pretesa di possedere un’immunizzazione culturale nei confronti del contatto di chi già vive a portata di gomito. Niente allarmismo, dunque, ma neppure sordità al campanello culturale d’allarme che continua a suonare.

[Pubblicato su “Il Piccolo”, il 7 febbraio 2020]