di Pier Aldo Rovatti

Un amico mi passa un breve video che sta circolando in rete. È un piccolo gioco ironico che fa collidere famosissime opere d’arte con il coronavirus. Per esempio, Guernica di Picasso che cambia titolo e diventa “Al supermercato”. Comincio da qui perché vorrei ragionare un poco sui margini di libertà che la pandemia ci lascia.

L’essere costretti a stare a casa non è propriamente un segnale di libertà. Siamo rimasti però sorpresi dalla reazione che quasi tutti hanno avuto di fronte alla irreggimentazione della vita quotidiana. Le strade  sgombre, le file ordinate all’esterno dei negozi in cui ciascuno tiene le misure consigliate e non protesta quando l’attesa è lunga. Pochi, quasi nessuno mugugna. La gente sembra tranquilla, perfino di buon umore, parla a distanza facendosi sentire, ha voglia di comunicare, paradossalmente mostra anche allegria, quasi che la spesa sia un piacevole momento di socialità.

E dentro le case? Chi non ha da svolgere qualche “lavoro agile” (come chiamano a Milano lo smart working), si serve del telefono e della televisione, soprattutto si attacca ai dispositivi digitali. I ragazzini hanno le loro lezioni da remoto (non entusiasmanti ma ci sono). Circola anche parecchia noia, naturalmente: le ore sono tante e la prossimità obbligata non sfocia sempre in un’oasi pacifica. Ci rallegriamo alle 18 quando dai balconi risuonano parole di vecchie canzoni.

Siamo molto preoccupati, anzi parecchio, è innegabile, così ci rimpinziamo fin troppo di notizie e commenti con una ragionevole ansia: alla stessa ora, le 18, arriva il bollettino di guerra con l’aggiornamento dei contagiati, degli ospedalizzati nei reparti di rianimazione, dei deceduti nelle ultime 24 ore. Sospettosi, ci chiediamo, guardandoci allo specchio, chi appartenga alla massa silenziosa degli asintomatici.

Fuori c’è il sole, ovvio che abbiamo voglia di uscire e magari di andare a distenderci sul lungomare di Barcola, ma non osiamo, anzi stigmatizziamo chi se ne impipa dei divieti. Viene certo il dubbio che alle restrizioni disciplinari, che – come ben sappiamo – possiedono un loro appeal, stiamo abituandoci troppo facilmente, ma è solo un dubbio.

Non ci resta che pensare. Ascoltati i telegiornali, storditi a forza di sfogliare i social, stanchi di preparare pranzo e cena, il pensiero trova spazio per entrare nella nostra quotidianità. Anche le parole che avete letto fin qui ne sono a loro modo un magro assaggio. Ma adesso vorrei tornare alla scenetta iniziale per registrare un fatto rilevante, non importa quanto minoritario (se poi davvero lo è), che si dà a vedere sotto la spessa coperta di paure o anche solo preoccupazioni: qualcosa di significativamente promettente, e dunque positivo, emerge dal mare delle negatività.

Sta capitando, in una dimensione più ampia di quanto può sembrare, di pensare che ci troviamo tutti sulla stessa barca e che, per una volta, le differenze di prospettiva e di collocazione sociale abbiano un peso non preponderante, cosicché ciascuno di noi può parlare il medesimo linguaggio di chi vive accanto o lontano dal luogo in cui ci troviamo. Parliamo la stessa lingua perché abbiamo i medesimi problemi.

Ma c’è qualcosa di ancora più importante di questo senso di comunità che, già da solo, può sorprenderci perché proprio non eravamo abituati, dopo una lunghissima stagione caratterizzata dall’inimicizia e dall’odio. La paura che oggi striscia attraverso le nostre esistenze sospende l’odio per il prossimo, che sopravvive soltanto nelle immaginazioni di tipo complottistico: a chi ce la racconta così, vedendo da ogni parte trame ostili, rispondiamo in genere con un’alzata di spalle perché adesso – pensiamo – è il momento della condivisione e il nostro sguardo è piuttosto rivolto al dopo, a che vita faremo quando la pandemia si sarà ritirata.

Quello che pensiamo al proposito, e che ritengo la cosa più significativa, è se e come riusciremo a modificare il vecchio stile di vita, egoistico e consumistico, litigioso e urlato, in un nuovo stile meno individualistico, più attento all’ambiente naturale in cui respiriamo, più pacato e riflessivo. Come se l’emergenza presente potesse rendere finalmente pensabile un passaggio dal mondo culturalmente inquinato che abbiamo dovuto mettere in quarantena a un mondo dove non saremo più disposti a tollerare tanta infezione sociale.

A me pare sorprendente che un’immagine positiva del domani prevalga sui timori che l’attuale restrizione possa solidificarsi in un vero e proprio regime disciplinare. Timori non del tutto infondati, ma che adesso sembrano rimanere in secondo piano rispetto alla scena che vorremmo allestire.

[Pubblicato su “Il Piccolo” il 20 marzo 2020]